Uno sforzo produttivo insolito, per non dire imponente, che ha coinvolto 15 artisti di diverse generazioni e tendenze: 14 pittori e 1 ceramista. Sono in massima parte veneti, per nascita, origine famigliare o residenza, e in misura minore non veneti ma legati alla regione per il rapporto coi collezionisti veneti e l’attenzione ai soggetti veneti. Tutti appartengono al mondo dell’arte nazionale e alcuni anche internazionale. Tutti hanno creato, ciascuno con la propria cifra stilistica, opere che esprimono il concetto di “Veneto felice”, dunque legate al territorio nelle sue varie sfaccettature e a una visione simpatetica di uomini e cose fra Garda e Tagliamento, Dolomiti e Laguna. “Veneto felice” è al contempo una constatazione e un auspicio: la constatazione di una caratteristica di cui il Veneto dev’essere consapevole e orgoglioso, l’auspicio per una nuova stagione di serenità.
Così dicendo introduco due temi, orgoglio e serenità, che nel mondo dell’arte contemporanea, che è un mondo autoreferenziale e tribale, risultano impronunciabili, quasi tabù. Secondo gli addetti di quell’ambiente plumbeo l’arte dev’essere per forza negativa, respingente, nichilista. Secondo me può essere invece più cose diverse: può essere negativa ma anche positiva, distruttiva ma anche costruttiva…Inutile dire quale sia il tipo di arte più necessario in tempi difficili come i nostri. Secondo John Armstrong e Alain De Botton l’arte può “correggere la tendenza generale alla depressione e incoraggiare un orgoglio collettivo intelligente”. In “L’arte come terapia” scrivono che il “desiderio di sentirsi fieri della propria comunità è un impulso naturale e positivo, che merita l’attenzione degli artisti”. Il Veneto merita questa mostra e questi artisti meritano l’attenzione dei veneti.
Camillo Langone
Gli artisti
Fabio Bianco
Mirano VE 1971, vive a Mirano
Bianco è la smentita del nomen omen, da quanto sono i colorati i suoi quadri. E non è il colorismo la storica peculiarità della pittura veneta? Non certo il disegno e nemmeno il messaggio, non per nulla fu il veneto Andrea Emo a scrivere che “lo scopo dell’arte è quello di liberarci dallo scopo; la liberazione dallo scopo”. Bianco vive a pochi chilometri dalla villa in cui il filosofo vergò tali parole liberanti e mi piace pensare che anche per questo motivo dipinga grandi tele sciolte da ogni vincolo ideologico, ipercromatiche e gioiose. Dopo aver guardato lontano, verso New York e i fiori di Andy Warhol, verso Tokyo e i pois di Yayoi Kusama, dopo aver concepito una sintesi Occidente-Oriente, Bianco si è immerso in laguna un bel giorno di sole e ne ha riportato oro, murrine e corolle.
Vanni Cuoghi
Genova 1966, vive a Milano
Cuoghi è il pictor in fabula, pittore narratore di origini polesane e per la precisione di Castelmassa, il paese la cui piazza che sembra un fondale teatrale Guareschi scelse per la copertina del primo “Don Camillo” (pensavate che fosse Brescello?). L’anno scorso, per la mostra “Pittori fantastici nella Valle del Po”, lo spronai a cimentarsi col mito di Fetonte, la caduta del figlio del Sole nel fiume che i greci chiamavano Eridano. Trasformò la tragedia in scenografia e favola, a proposito di refrattarietà veneta alla violenza, condivisa dall’artista per la sua peculiare cifra stilistica: sul palcoscenico, a teatro, nessuno muore davvero. Stavolta Cuoghi si confronta con un Veneto non padano bensì pedecollinare e montano, mettendo in scena Vicenza, Bassano e ovviamente Asiago, all’interno di cartoline deliziose e nostalgiche.
Alessandro Fogo
Thiene VI 1992, vive a San Benedetto del Tronto AP
Fogo è il Giovane Misterioso, i suoi quadri racchiudono enigmi e rituali, sogni e segreti, elementi la cui densità, in questo lavoro realizzato per Asiago, è accentuata dalla piccola dimensione che indirizza lo sguardo e quasi lo obbliga a tentare la soluzione del rebus. Ricordando inoltre una delle più tipiche idee di Comisso: “Tutto il mondo è in un metro quadro”. E se il mondo intero può stare in uno spazio tanto ridotto, l’intero Veneto può concentrarsi nei 750 centimetri quadrati di questo lino prezioso. Abbiamo qui il leone dormiente di Antonio Canova, conservato a Venezia alla Galleria dell’Accademia, e la vipera cornuta del Monte Grappa caro all’artista. Con un gioco di rimandi fra pittura e realtà, storia e natura, Alpi e Laguna, che sintetizza un Veneto molteplice con l’energia dell’arte nuova.
Giuliano Guatta
San Felice del Benaco BS 1967, vive a Birbesi di Guidizzolo MN
Guatta è colui che definisco, nel molto profano mondo dell’arte contemporanea, Beato Giuliano da San Felice, un pittore che ai Santi ci crede davvero e la cui vita artistica presenta non poche affinità con quella dei campioni della fede: vocazione, probità, tormento, grazia… La beatitudine è inoltre nel principale pittore di riferimento, il Beato Angelico, mentre la santità denomina il paese natale, San Felice del Benaco, provincia di Brescia ma diocesi di Verona e dunque Veneto cristiano. Guatta ha dipinto con visionario stile ben tre Santi, Modesto patrono della Reggenza, Vito, suo discepolo, e Crescenzia, nutrice di Vito, accomunati dalla fede e dal martirio sotto Diocleziano: “Erano una piccola comunità e mi piace accostarli alla Reggenza dei Sette Comuni, improntata a un forte spirito comunitario e rappresentata dalle sette teste intorno alla scena”.
Matteo Massagrande
Padova 1959, vive a Padova
Matteo Massagrande è il Maestro delle Stanze, grandi interni deserti e spogli dove vibra il sentimento del tempo, come gli scrisse Ermanno Olmi: “Nei tuoi quadri ogni cosa evocata è lì sospesa in quell’istante infinito che è l’incanto della poesia”. E pensare che nella barchessa della villa effigiata (Villa Tretti Brazzale, frazione di Bevadoro, comune di Campodoro, provincia di Padova, diocesi di Vicenza) soggiornò niente meno che Filippo Tommasi Marinetti, in quei giorni del 1918, descritti in “L’alcova d’acciaio”, molto prosaico e bellicista. Massagrande è il suo contrario: se non pacifista certo pacifico, se non passatista certo proustiano, ricercatore del tempo perduto. Oltre che inventore di una tecnica pittorica alquanto complessa studiata per trasportare le sue stanze nell’eternità.
Raffaele Minotto
Padova 1969, vive a Vigodarzere PD, lavora a Tribano PD e Padova
Minotto è il Maestro di via Euganea, dall’indirizzo padovano di uno dei suoi studi, e con coerenza ha realizzato un quadro avente sullo sfondo i Colli Euganei che Comisso proprio in “Veneto felice” definì “favoloso giardino delle Esperidi, dove gli incanti e le sorprese si succedono a ogni passo”. L’incanto è sempre abbondante nella pittura neoimpressionista di Minotto, ambientata in un’aristocratica età dell’oro. Ci troviamo immersi come in Massagrande in un ovattato Veneto proustiano, scaturito dalla memoria e al contempo dall’invenzione, solo che qui il nome più prossimo non è Antonio López García ma Claude Monet. Mentre aleggia anche D’Annunzio che poeticamente percepì Padova come città del silenzio, “lembo del giardin d’Armida”.
Nicola Nannini
Bologna 1972, vive a Cento FE e Montebello Vicentino VI
Nannini è paesaggista letterario e quando dipinge la Valle del Po dove è nato si sente l’eco di Gianni Celati (“Narratori delle pianure”, “Verso la foce”) e quando dipinge il Veneto dove lavora e vive per parte dell’anno risuonano sulla tela Piovene, Pozza, Parise, le 3 P della vicentinità novecentesca. Nannini porta ad Asiago una Vicenza minore, non turistica, non palladiana bensì pittoresca, resa ancor più struggente dalla scelta dell’ora ossia il tramonto. Fra poco sul ponte degli Angeli calerà il buio eppure non c’è da preoccuparsi, la città è tranquilla e non lo dice lo stereotipo ma la statistica: il Veneto ha un tasso di mortalità per omicidio inferiore a tutte le regioni confinanti e molto inferiore alla media nazionale. Perché “Veneto felice” non è solo il titolo di una mostra o un invaghimento di letterati: è realtà Istat.
Nero / Alessandro Neretti
Parma 1957, vive a Parma
Enrico Robusti è il più balzachiano dei pittori che in luogo della Comédie humaine di 137 libri ha composto una Commedia italiana di 137 quadri (suppergiù). In entrambi i casi abbiamo un’ampia descrizione della società, che sia l’Italia del ventunesimo secolo o la Francia del diciannovesimo. Parma come Parigi, ad esempio, e più di Parigi per quanto riguarda i salumi, i tinelli, le tette grosse, le marmette, robustiani stilemi. E l’osteria veneta (nell’opera ad Asiago) come bistrot transalpino, e più longeva di quest’ultimo perché scrigno di cinque secoli di vita serenissima da Tiziano a Rigoni Stern, passando per Casanova. Grazie a un pennello vorticoso che deforma uomini e cose per eternare il tutto con stile espressionistico e tono tragicomico. Anzi più comico che tragico, e col calore di una comune umanità che sembra uscire dalle pagine del settecentesco veneziano Gasparo Gozzi: “L’osteria forma una famiglia universale e una parentela congiunta col mezzo del diletto”.
Manuel Pablo Pace
Montecchio Maggiore VI 1977, vive a Bassano del Grappa VI.
Pace è il pittore del Veneto Felice se ce n’è uno: ritrattista ottimista, paesista verdeggiante, tavolozza luminosa, cieli rubati al Tiepolo… Questo per quanto riguarda l’opera mentre per quanto riguarda l’uomo devo aggiungere il doppio nome curioso, il cognome conciliante, il carattere amabile, i baffi a manubrio, la casa-studio di Campese località maccheronica, il tutto a testimoniare una bella coerenza fra arte e vita. Pace per la mostra di Asiago ha voluto rappresentare un rito di rinascita tipico delle campagne venete, la raccolta del primo tarassaco (popolarmente detto pissacan) alla fine dell’inverno. Il fiore giallo di questa pianta selvatica dalle virtù medicamentose è un piccolo sole e la sua comparsa supera l’occasione stagionale per simboleggiare l’uscita da un qualsivoglia periodo buio. Un quadro che è un augurio
Mauro Reggio
Roma 1971, vive a Rocca di Papa RM
Mauro Reggio è il massimo vedutista romano del suo e del nostro tempo e dunque l’erede di Piranesi, solo che al contrario del famoso incisore comunica coloristica serenità. Come se tra i due artisti il più veneto fosse quello nato a Roma e non quello nato a Venezia. Reggio non venera le rovine, non idolatra lo sporco, copre tranquillamente le crepe: se fosse un restauratore non apparterrebbe alla scuola filologica di Boito e Brandi ma a quella più libera ed energica di Marconi e Zanardi. Dunque si permette cieli arancioni, Colossei senza turisti e centurioni, piazze Duomo (rappresenta anche Milano) senza piccioni, basiliche di San Petronio (una parentesi bolognese) senza bivacchi antistanti, e infine leoni di San Marco (cos’altro poteva dipingere per “Veneto felice”?) senza tricolori nei dintorni, prima di Campoformio.
Enrico Robusti
Parma 1957, vive a Parma
Enrico Robusti è il più balzachiano dei pittori che in luogo della Comédie humaine di 137 libri ha composto una Commedia italiana di 137 quadri (suppergiù). In entrambi i casi abbiamo un’ampia descrizione della società, che sia l’Italia del ventunesimo secolo o la Francia del diciannovesimo. Parma come Parigi, ad esempio, e più di Parigi per quanto riguarda i salumi, i tinelli, le tette grosse, le marmette, robustiani stilemi. E l’osteria veneta (nell’opera ad Asiago) come bistrot transalpino, e più longeva di quest’ultimo perché scrigno di cinque secoli di vita serenissima da Tiziano a Rigoni Stern, passando per Casanova. Grazie a un pennello vorticoso che deforma uomini e cose per eternare il tutto con stile espressionistico e tono tragicomico. Anzi più comico che tragico, e col calore di una comune umanità che sembra uscire dalle pagine del settecentesco veneziano Gasparo Gozzi: “L’osteria forma una famiglia universale e una parentela congiunta col mezzo del diletto”.
Elisa Rossi
Venezia 1980, vive a Treviso
Elisa Rossi è Nostra Signora del Raccoglimento: la sua lenta pittura ipnotica, esercizio di pazienza quasi monastica, è come un rosario di trine. Pronipote di merlettaie buranesi, da qualche tempo dipinge quadri che rappresentano quei tessuti preziosi e antichi, costituendo nell’insieme un patrimonio di tele da intendersi come lievi monumenti al lavoro femminile, se non alla femminilità tutta. Quando le hanno chiesto tre parole per descrivere la propria pittura, ha risposto: “Silenzio, preghiera, luce”. Di fronte a simili parole e a tali immagini il critico dovrebbe avere il buon gusto di tacere. Al massimo può suggellare il testo con una citazione. A proposito di arte e preghiera scelgo dunque un poeta che in Laguna, vicinissimo a Burano, è sepolto: “Tutta la creatività è essenzialmente una preghiera. Tutta la creatività è diretta all’orecchio dell’Onnipotente” (Iosif Brodskij).
Marta Sforni
Milano 1966, vive a Venezia
Marta Sforni è la delicata regista del Teatro di Vetro. Nelle sue tele la pittura si fa medusa e fantasma ma innanzitutto vetro: il vetro dei lampadari di Murano, per la precisione. Quando chiesi all’eccellente pittrice il motivo della sua predilezione per tali oggetti ebbi questa risposta: “Un lampadario di Murano antico è stato soffiato da un uomo, è costituito da una miriade di pezzi uno diverso dall’altro, è sopravvissuto fino a noi”. Come non condividere un così trepidante interesse? Simone Weil scrive che “la compassione per la fragilità è sempre legata all’amore per la vera bellezza, perché sentiamo intensamente che alle cose veramente belle dovrebbe essere assicurata un’esistenza eterna e che così non è”. Marta Sforni ai bellissimi e fragilissimi vetri di Murano assicura la lunga durata dell’olio su tela, con gli ariosi colori dei fiori di Rosalba Carriera.
Lorenzo Tonda
Fiesole FI 1992, vive tra Firenze e Roma
Lorenzo Tonda è la Speranza della Figurazione Italiana, fra i pittori nati negli anni Novanta il più impegnato sul fronte della rappresentazione anche dal punto di vista intellettuale. Non a caso ha collaborato con Nicola Verlato, il Martello degli Iconoclasti. Toscano dalle radici venete (Spinea), ha messo la sua pittura eloquente al servizio di una meraviglia di Treviso, la Fontana delle Tette: “Il sindaco ha promesso che una volta finita la pandemia la Fontana sarebbe stata riattivata buttando vino per tutti. Immagino che nel riprendere la sua funzione originaria la Fontana faccia un balzo, animandosi. Mentre quattro danzanti adoratori le rendono omaggio, lei con un getto dal seno sinistro (quello dedicato al rosso) colpisce sul viso l’uomo in primo piano intento ad annacquare colpevolmente il vino”. Oltre che vino bianco e rosso, nella sorprendente tela di Tonda riprende a scorrere lo spirito della goliardia, uno degli storici elementi della felicità veneta.
Nicola Verlato
Verona 1965, vive a Roma
Nicola Verlato è il Grande Iconodulo, il paladino delle immagini dentro un sistema dell’arte contemporanea che per definizione tende all’iconoclastia, al nichilismo. E’ il campione della Pittura Forte, il Nemico Numero Uno dell’astrazione, l’artista-filosofo (tra Parmenide e Severino) i cui quadri vertiginosi e plastici (tra Michelangelo e Giulio Romano-Mantovano), manifestano la perenne rilevanza dei temi greci, l’eternità della classicità. Verlato, pur cresciuto nei Colli Berici descritti da Piovene con toni da elegia, sa che l’arcadia non è di questo mondo e nemmeno del Veneto. Propone dunque la figura di Antenore, fondatore mitologico di Padova e della Venezia Euganea, principe troiano, personaggio scaturito dalla tragedia omerica: per ricordare che il Veneto Felice non è un dono gratuito degli dei ma una conquista resa possibile da un lungo impegno di civiltà.