Si dice che la capitale italiana dell’arte contemporanea sia Milano ed è vero. Negli ultimi anni lo status artistico di Roma è crollato, mentre Torino usciva dai radar (e non parlo di Venezia, Firenze e Napoli perché l’archeologia non è la mia materia).

Bene: non uno dei pittori partecipanti alla presente mostra (i vincitori delle cinque edizioni del Premio più quattro dei migliori classificati) abita a Milano. Nemmeno in provincia di Milano.

Non è una smentita né un trasloco: la capitale italiana dell’arte contemporanea resta comunque quella.

Ma è la prova che una cosa è la distribuzione, altra cosa è la produzione. E che il talento conta più dell’indirizzo.

Per questo la scelta di una località geograficamente abbastanza eccentrica come Asiago risulta consona e felice.

Geograficamente eccentrici sono quasi tutti i pittori presenti: Gasparro vive in un posto sperduto fra Bari e il nulla, Reggio in un borgo arroccato sui Colli Albani, Normanno in un comune sparso della collina pistoiese, Samorì in un paese romagnolo di vocazione rurale, Marta Sesana in un piccolo centro della Brianza, eccetera.

Gli artisti

Osserviamoli uno a uno, i campioni dell’eccellente pittura.

Giovanni Gasparro

È il piccolo principe della nuova arte sacra, il giovane artefice che senza spostarsi dal suo paese dell’entroterra barese (non ha nemmeno la patente) si è affermato in pochi anni come punta di diamante della pittura cattolica. “Perturbante” secondo Camilla Baresani, “strabiliante e commovente” secondo Pupi Avati, “incredibilmente competente” secondo Roger Scruton, è un formidabile ritrattista ma dipinge di preferenza Santi e Madonne, per una vocazione che precede qualsivoglia commissione. Il qui presente, impressionante “San Nicola di Bari schiaffeggia l’eresiarca Ario”, testimonia la sua visione pre-conciliare: mai si era visto un San Nicola così bellicoso, altro che Babbo Natale…

Ester Grossi

È la maestra della linea, l’artista che non può non conquistare chi ama la nitidezza, la nettezza, l’esattezza. E’ inoltre la titolare della tavolozza più chiara di tutta la mostra e forse di tutta l’eccellente pittura del nostro tempo così cupo. Nel corso degli anni si è fatta via via più astratta e molti suoi lavori, in virtù di una stilizzazione estrema, si collocano ora nel punto medio tra figurazione e astrazione fondendo le due modalità in una sola tela, con una capacità di sintesi che nel mondo ha pochi eguali. Mantenendosi sempre riconoscibile (e questo ha l’aria di un ossimoro pittorico, di un obiettivo contraddittorio eppure raggiunto) anche quando sfiora l’astrazione pura. Come nel caso di “Visione 7” esposta ad Asiago.

Rocco Normanno

È l’ultimo dei caravaggeschi, secondo la definizione di Vittorio Sgarbi suo massimo estimatore. Dunque dovremmo cominciare a chiamarlo il Taurisano: come Michelangelo Merisi è noto col nome del paese d’origine, Normanno andrebbe onomasticamente legato al Salento natale. Così come il Caravaggio veste i personaggi veterotestamentari ed evangelici con abiti contemporanei, Normanno veste modernamente Lot e le di lui figlie. Il risultato, qui ad Asiago, è la Bibbia al tempo di “Chi l’ha visto?”: reale squallore e dura verità. Talmente dura da rischiare la censura. La “Testa di bue” (anch’essa in mostra) è stata rimossa da Facebook “per violazione degli Standard della comunità”: troppo realismo, la stessa accusa mossa a Caravaggio.

Tommaso Ottieri

È il pennello volante che per questa mostra plana soprattutto su Venezia ma nel complesso di una carriera fulgida aleggia anche su Napoli, città natale, e su Roma, Milano, Madrid, Parigi, Praga, New York, San Francisco, ovunque il suo paesaggismo urbano sia richiesto… Però se dal grande corpus si vuole estrarre il capolavoro ecco “Sant’Agata”, non una capitale del mondo ma un paese del Sannio, regione materna. Un encausto, tecnica antichissima (El Fayum, Pompei…) e difficilissima che Ottieri pratica di rado e gli altri mai, per non fallire come miseramente fallì Leonardo a Palazzo Vecchio, tentando una Battaglia di Anghiari che si trasformò in sconfitta, rotta e fuga da Firenze. A Ottieri invece l’encausto riesce, ad Asiago abbiamo la prova.

Mauro Reggio

È il massimo vedutista romano del suo e del nostro tempo e dunque l’erede di Piranesi, solo che al contrario del famoso incisore comunica, a dispetto di tutto, serenità. Reggio non venera le rovine così come si trovano, non rispetta la patina, copre tranquillamente le crepe: se fosse un restauratore non apparterrebbe alla scuola filologica di Boito e Brandi ma a quella più libera ed energica di Marconi e Zanardi che in un tempo plumbeo, patibolare, non può che essere una scuola di minoranza. Così Reggio si permette cieli arancioni, Colossei senza turisti e centurioni, piazze Duomo (dipinge anche Milano) senza piccioni e basiliche di San Petronio (qui abbiamo pure Bologna) senza bivacchi antistanti. Fosse davvero così, l’Italia.

Enrico Robusti

È il più balzachiano dei pittori che in luogo della Comédie humaine di 137 libri ha composto una Commedia padana di 137 quadri (o giù di lì). In entrambi i casi abbiamo una descrizione pressoché esaustiva della società in cui è immerso l’autore. Parma come Parigi, dunque, e più di Parigi per quanto riguarda i salumi, i tinelli, le tette grosse, le marmette, tutti robustiani stilemi. E un pennello vorticoso che deforma persone, animali e cose, con stile espressionistico, per eternarle prima che il buio le inghiotta per sempre. Ecco ad esempio “Cenerentola”, quadro ambientato stavolta non a Parma ma proprio a Parigi, al Louvre: lei ha qualcosa di Lady Diana e in fondo alla scala c’è come un tunnel, mentre la scarpa perduta si trasforma in scheletro.

Nicola Samorì

È il defiguratore, lo sfiguratore dei suoi stessi quadri che, una volta dipinti con cura, vengono in vario modo torturati: il più delle volte parzialmente spellati con il bulino. Il colto artista romagnolo procede evidentemente oltre Bacon e oltre Fontana, con una sorta di spazialismo figurativo che attinge dalla pittura religiosa del passato per mostrare la decomposizione religiosa, di conseguenza umana, del presente. Pittore tridimensionale sia perché la superficie dei suoi quadri non è mai davvero piatta bensì corrugata, raschiata, scavata o accresciuta dalle macerie del colore a olio, sia perché di tanto in tanto realizza sculture vere e proprie. Enormi o minuscole le opere di Samorì sono sempre, in ogni senso, di notevole spessore.

Marta Sesana

È il folletto di Brianza, la creatrice di una pittura psichedelica che trasfigura una realtà non sempre amena col risultato di una continua festa del colore, di sempre nuove stupefacenti favole. Gli uomini assomigliano a pupazzi, gli animali assomigliano a uomini, la natura si anima, lo stupore si diffonde. “L’arte non è imitazione della realtà ma interpretazione individuale di essa”, scrisse Roberto Longhi parecchi anni fa e guardatevi oggi, ad Asiago, come diventa azzurro il mare di Rimini e gioiosa una domenica sull’Adda, se a dipingere è un’artista purissima e individualissima, senza alcun paragone in Italia, esclusivista assoluta della dream painting.

Nicola Verlato

È il grande iconodulo, teorico-pratico della figurazione “proveniente dal mondo greco-romano e custodita nel mondo cattolico”. La sua è una pittura intellettualmente muscolare e muscolari sono anche i suoi personaggi, dipinti come avrebbe dipinto Michelangelo se avesse avuto a disposizione modelli palestrati e modelle pornostar. Massimalista, politeista, anti-astrattista, combatte l’odiata iconoclastia svelandone le radici religiose (il protestantesimo, il puritanesimo…) e mostrandone l’inevitabile esito ossia la censura, ottusa e violenta specie a livello di istituzioni (accademia e museo). Non frequentissimo caso di pittore col dono della parola e perciò inoltre conferenziere.